Sigle ESG e SRI:

è la volta buona?

All’inizio degli anni ’90, la Henkel, colosso tedesco del settore home care, ha lanciato sul mercato Atlas, una linea di detersivi ecologici per il bucato e per la casa, e fu un pazzesco flop ecologico soprattutto in Italia.

Allo stesso tempo i primi fondi etici lanciati in Italia si rivelarono prodotti per pochi e coraggiosi amatori.

Oggi la coscienza collettiva si è destata e le sigle ESG e SRI sembrano essere diventate un must. Gli investimenti socialmente responsabili (SRI) in base ai quali agli obiettivi tipici della gestione finanziaria, cioè l’ottimizzazione del rapporto tra rischio e rendimento in un dato orizzonte temporale, vengono affiancate considerazioni di natura ambientale, sociale e di governo societario (ESG – environmental, social, governance) stanno conoscendo una nuova primavera.

Cosa ha provocato questo benefico cambiamento? Innanzitutto i terribili cambiamenti climatici effetto del surriscaldamento della crosta terrestre sono sotto gli occhi di tutti ed anche i più scettici si sono convinti.

Secondo ci si è resi conto anche nel mondo della finanza che gli investimenti responsabili non solo non comportano necessariamente rinunce in termini di rendimento ma anzi non avendo carattere speculativo danno l’opportunità anche ai clienti di guardare al medio-lungo termine. E sappiamo quanto sia importante dal punto di vista dell’educazione finanziaria saper attendere.

È infatti ormai assodato che questo tipo di investimento riesca a dare rendimenti migliori in periodi medio-lunghi e questo comporta anche un altro aspetto non banale: contribuisce ad insegnare agli investitori finali che per ogni buon investimento bisogna aspettare ed avere un orizzonte temporale medio lungo. 

La sostenibilità economica, sociale e ambientale sta generando valore tangibile nelle migliori aziende al mondo e non è più una nicchia tra la filantropia e l’ambientalismo.

Lo ha certificato anche la banca d’affari Goldman Sachs, secondo cui gli investimenti SRI – ESG sono il nuovo traguardo dell’economia mondiale che sta generando investimenti superiori ai sessantamila miliardi di dollari. Incredibile se si pensa che gli investimenti mondiali in società reputate sostenibili dal mercato erano solo tredicimila miliardi di dollari del 2012.

Tutto oro quello che luccica? In realtà esistono dei possibili limiti per gli investimenti socialmente responsabili.

Innanzitutto i maggiori costi: un portafoglio socialmente responsabile richiede costi maggiori rispetto ad un fondo comune di investimento o un ETF, alle spese per la ricerca e selezione delle aziende socialmente responsabili si sommano quelle di marketing e di gestione del portafoglio.

Secondo il concetto di socialmente responsabile è soggettivo: non esiste infatti una definizione universalmente condivisa di SRI. L’energia nucleare ne è un perfetto esempio: se guardiamo ai danni che potrebbero essere provocati da incidenti, non può certamente configurarsi come un investimento socialmente responsabile, ma lo sarebbe se fosse considerata come sostituto dei combustibili fossili.

Terzo la selezione di aziende e quindi la scelta dei titoli socialmente responsabili conduce inevitabilmente ad un minor grado di diversificazione del portafoglio. Non bisogna dimenticare che i titoli delle aziende socialmente responsabili sono comunque soggetti a rialzi e ribassi di mercato. E nel caso di una minore diversificazione, la perdita presumibile di prezzo conseguente all’andamento negativo dei fattori economici capaci di influenzarne la valutazione aumenta.

Certamente, molte società specializzate in investimenti finanziari stanno cavalcando l’onda per offrire questo tipo di prodotti al grande pubblico. Potrebbe esserci il rischio che in alcuni casi tutto questo possa tramutarsi solo in una trovata di marketing, fatta per attrarre il maggior numero di risparmiatori.

Ci auguriamo e crediamo che non sia così perché se lo fosse sarebbe un’occasione persa per il mondo della finanza e per noi tutti.

Nicola Ronchetti