IL FUTURO DEI FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO

Investire | Gennaio 2024

Facendo un bilancio dell’anno appena passato e cercando di prevedere quello che ci aspetta per il nuovo anno è inevitabile parlare di risparmio gestito e in particolare dei fondi comuni di investimento e del loro futuro.

Giova ricordare che i fondi comuni di investimento hanno rappresentato, a partire dai primi anni ottanta, la migliore forma di democratizzazione degli investimenti: per il loro tramite chiunque poteva accedere ad un investimento diversificato, acquistandone una quota in base alle proprie disponibilità.

Nel marzo del 1983 vede infatti la luce la legge 77 che istituisce e disciplina i fondi comuni di investimento mobiliare. I primi prodotti investivano soprattutto in titoli monetari e obbligazionari, mentre le azioni non superavano il 15% del patrimonio gestito complessivo e i fondi azionari rappresentavano appena l’1% dell’intera capitalizzazione di Borsa.

Da quel momento è stato un susseguirsi di successi con lo sfondamento nel 2017 dei 2.000 miliardi di AUM. 

Oggi a quaranta anni di distanza i fondi comuni di investimento sembrano però entrati in una crisi di mezza età. I deflussi registrati nel 2023 (circa 40 miliardi pari a un -1,7% sugli AUM), pur largamente contenuti rispetto all’anno orribile 2008 (-25%), hanno rallentato la loro corsa.

Per la loro ripresa sarà fondamentale la capacità di generare valore per i sottoscrittori. Il successo di qualsiasi prodotto, sia esso finanziario e non, è dato dalla sua capacità di remunerare tutta la catena degli stakeholder: produttore, distributore e – soprattutto – l’utente, giudice finale del suo successo o insuccesso.

Secondo uno studio recente di Banca d’Italia basato su un rapporto ESMA i costi annui dei fondi comuni azionari in Europa si aggirano sull’1,5% mentre per l’Italia tale valore sale al 2%.

In questo contesto la perdita delle rendite da posizione non potrà che fare bene ai fondi comuni e ai loro gestori, in un processo di selezione naturale in cui sopravviveranno solo i più forti e capaci.

In questo processo, la cosiddetta consulenza evoluta avrà certamente un ruolo da protagonista, se sarà in grado di includere e affiancare ai fondi comuni di investimento anche altre soluzioni in grado di remunerare il cliente finale.

In ogni mercato giunto alla maturità, si passa dalle soluzioni su misura degli albori a un’offerta industrializzata che ha come finalità, la ricerca della frontiera efficiente da almeno due punti di vista.

Il primo punto di vista è quello, per così dire, più nobile rappresentato da Harry Markowits, che con la sua teoria del portafoglio efficiente ha rivoluzionato l’approccio all’acquisto di azioni dando primaria importanza al rapporto tra rischio e rendimento.

Secondo il premio Nobel per comporre un portafoglio “efficiente”, è necessario in primis individuare una combinazione di titoli tale da minimizzare il rischio e massimizzare il rendimento: i titoli che compongono un portafoglio devono essere tra loro il meno correlati possibile.

Il secondo punto di vista, forse meno nobile, è quello del bottegaio, che quando vede ridursi il numero di clienti, analizza le cause e trova le soluzioni.

Ad unire il punto di vista del bottegaio a quello del premio Nobel sono due aspetti centrali attorno a cui tutto ruota: qualità dell’offerta e prezzo dei prodotti.

Dal rapporto ottimale di questo binomio non si scappa, a meno che non si voglia, prima o poi, chiudere bottega.

Nicola Ronchetti