Investimenti illiquidi

la finanza al servizio dell’economia reale

Il 2018 è stato certamente un anno complesso per i mercati finanziari, con il 90% delle asset class in negativo, ma allo stesso tempo un anno d’oro per i fondi di private equity e di venture capital. 

Certamente si tratta di un mercato più piccolo che però, con quasi 10 miliardi di euro di investimenti, ha registrato il valore più alto di sempre sul mercato italiano.

In Italia persiste tuttavia una pericolosa separazione tra finanza ed economia reale. Gli investimenti illiquidi rappresentano infatti in Italia lo 0,2% contro lo 0,9% dell’Europa e il 3,4% degli USA.

Questo risultato trova una spiegazione nel tessuto imprenditoriale italiano, costituito per oltre l’80% da imprese medio piccole, la maggior parte delle quali a controllo famigliare. Rispetto ai cugini europei è nota la nostra capacità a creare piccole aziende di assoluta qualità accompagnata però dalla nostra ancestrale ritrosia a fare sistema, ovverosia ad aggregarsi e quindi ad accedere in modo strutturato al mercato dei capitali.

Detto ciò è evidente che la nostra economia reale, rappresentata da aziende non quotate con i loro fondatori, la manodopera qualificata, i brevetti e i prodotti, rappresenti l’unico vero propulsore allo sviluppo e alla crescita economica del nostro bel paese.

L’investimento in economia reale ha inoltre due punti di forza: 1) contribuisce allo sviluppo delle migliori eccellenze imprenditoriali e quasi sempre anche del territorio e della comunità in cui sono impiantate; 2) può offrire un’interessante opportunità di diversificazione del portafoglio e di rendimento in un’ottica di medio-lungo periodo e in epoca di tassi zero.

Negli ultimi due anni i fondi di private equity hanno registrato un successo notevole e soprattutto – grande novità – si sono avvicinati alla clientela retail affiancandola a quella istituzionale che da sempre ha preso beneficio da questa particolare tipologia di investimento.

Ma cosa sono gli investimenti illiquidi? E quanti tra i Consulenti Finanziari e i Private Banker italiani li conoscono? 

Per prodotti finanziari illiquidi si intendono i prodotti per i quali sussistono difficoltà di smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole (estratto dalla Comunicazione CONSOB n. 9019104 del 2 marzo 2009).

Questa definizione sufficientemente tautologica sembra però nascondere l’enorme potenziale di questo tipo di investimento e i vantaggi per gli investitori finali.

Dalle ultime rilevazioni fatte da FINER su due dei suoi osservatori continuativi (FINER® CF Explorer e FINER® PB Explorer) che hanno coinvolto oltre 5.000 professionisti emergono due dati su tutti: il 34% dei CF e PB intervistati dichiara di conoscere questo tipo di investimenti, la metà di costoro (pari al 17% del totale) si sente fiducioso e preparato per proporli ai propri clienti. 

Dati positivi dunque, considerato che le barriere sono soprattutto la mancata conoscenza da parte dei CF e dei PB di questi strumenti (66%), il fatto che richiedano – per i più – un orizzonte temporale di almeno dieci anni (57%) e che quindi non siano strumenti per tutti i clienti, sia in ragione della loro illiquidità che della quota a loro destinata, che concordi quasi tutti (85%) deve oscillare tra l’1% e il 5% massimo del portafoglio complessivo del singolo cliente.

Per quanto riguarda la soglia di accesso a questo tipo di investimenti, la maggior parte degli intervistati (78%) concorda nel ritenere che la somma minima debba stare in un intorno di centomila Euro, il che limiterebbe questo tipo di investimenti ad una clientela private e HNWI.

Ma c’è anche chi ritiene (22%) che si possa prevedere un ticket di ingresso compreso tra venti e trentamila Euro, consentendo quindi l’accesso a questa asset class anche ai cosiddetti clienti affluent e upper affluent.

Possiamo dunque affermare che il futuro di questo tipo di investimenti passa attraverso tre regole base di ogni investimento: 1) le competenze e la preparazione del proponente (CF e PB); 2) la capacità di definire l’orizzonte temporale dell’investitore finale; 3) la corretta identificazione della propensione al rischio del cliente. 

Certamente nulla di nuovo sotto il sole, ma in questo caso – più che mai- non sono consentite scorciatoie o comunicazioni incomplete agli investitori finali, viceversa il rischio che gli investimenti da illiquidi possano diventare scivolosi è del tutto evidente. 

Nicola Ronchetti