L’ANTICO, QUESTO NOSTRO CONTEMPORANEO

We Wealth | Febbraio 2022

Non sempre questi due intrattengono rapporti facili: figliazione, discendenza, eredità e gerarchie creano complicazioni tra gli artisti di oggi e quelli di ieri; e non aiutano certo le peripezie del gusto che cambia, spesso in modo repentino e per mille ragioni, non ultime quelle versatili del mercato. La vita dell’arte, si dirà, è da sempre scandita da rifiuti del passato e allontanamenti dai progenitori o predecessori; e in questa storia di fratture più o meno clamorose, i secoli ventesimo e ventunesimo occupano un posto d’onore, pronti a brandire gli slogan del ‘Make it new!’ in forme provocatorie e battagliere, dal Futurismo a Dada o Fluxus fino all’arte concettuale e oltre. Però, non appena ci si convince che la discontinuità regna sovrana e che l’arte vive perché spezza il filo che lo lega al passato, ecco palesarsi nel paesaggio contemporaneo chi sembra invece attingere a piene mani al patrimonio antico; viene in mente la serie Gazing Balls di Jeff Koons, modulata tra scultura e pittura, dove opere di un passato anche lontano – tra le quali l’Ercole Farnese di Napoli (370 a.c.) e La caccia alla tigre di Pieter Paul Rubens (1616) – sono riprodotte (da un esercito di assistenti!) e ‘arricchite’ da una sfera blu riflettente, collocata in posizione strategica tale da consentire un dialogo con il contesto espositivo e invitare  lo spettatore a rispecchiarsi sulla spalla di Ercole o in mezzo alle belve inferocite. In modo plateale, Koons mette in scena il classico per creare deliberate deflagrazioni tra tecniche e forme antiche e materiali e modi contemporanei, come la brillante plastica industriale che predilige anche per altre opere. Il suo piccolo specchio rotondo non è certo il solo oggetto artistico a rammentarci che tra antico e contemporaneo c’è ‘una perpetua tensione che continuamente si riarticola nel fluire dei linguaggi critici e del gusto, nei meccanismi di mercato, nel funzionamento delle istituzioni, nella cultura popolare’. Così Salvatore Settis, nella introduzione del suo bel libro, Incursioni. Arte contemporanea e tradizione (Milano, Feltrinelli, 2020): pagine di avventura in cui si insegue la memoria arcaica delle prime sculture lignee greche che giace silente e viva negli alberi di Giuseppe Penone, o ancora il soffio delle Metamorfosi ovidiane che vi si respira; e capitoli dove si rivelano conversazioni inattese come quelle tra la videoarte  di Bill Viola e la forma medievale della predella oppure le affinità tra alcune sue video istallazioni e il Rinascimento inquieto di Jacopo da Pontormo.  

Settis, da grande e raffinato studioso, sa bene che il dialogo artistico tra oggi e ieri non è né lineare, né continuo, né trasparente: ma sembra far proprio il convincimento di Aby Warburg, sicuro che ‘l’arte del passato, rivissuta in un ritmico alternarsi di morti e rinascite, si fa agente di innovazione’ e diventa spesso un grimaldello prezioso per catturare le esperienze e le sensibilità dell’oggi. Chi ha approfittato di Venezia tra estate e autunno avrà sentito più volte l’eco di queste parole. Sarà bastato varcare la soglia di Punta della Dogana per andare incontro ai Contrapposto Studies di Bruce Nauman, artista poliedrico e di molti linguaggi visivi e musicali, attore della più viva modernità di ricerca. Ma il contrapposto, si sa, allude al momento fondamentale, risalente al V secolo AC, in cui gli scultori, sazi della simmetria e della staticità delle forme arcaiche, diedero al corpo di pietra un dinamismo sconosciuto, con la piega del ginocchio, lo spostamento del peso, l’abbassarsi della spalla, una torsione nuova e l’accenno a un passo che si prepara. Tra performance, videocassette e video-installazioni, e al contempo nel segno della memoria classica, Nauman modula le variazioni del contrapposto in sagome maschili colte nell’atto di camminare o ballare, frontalmente o di profilo, in un viaggio austero e dissonnante attraverso la precarietà dell’equilibrio e i pericoli di caduta che contraddistinguono il paesaggio esistenziale dell’artista.

Sull’altra riva del Canal grande, nelle belle sale di Palazzo Franchetti, classico e contemporaneo s’incontrano diversamente e con gioia e sensualità nella mostra Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagina di felicità. Figure umane, animali e oggetti d’uso quotidiano danno vita a un mondo di forme morbide e cromatismi raffinati – ocrea della terra cotta e blu del lapis lazuli: e una modernità ineludibilmente novecentesca – strada, vita popolare, donne che conversano, uomini al lavoro, forme geometriche e non figurative – coesiste, per affinità e anche per contrasto, con due preziosi sarcofaghi fittili del III secolo. Il modernissimo dell’antico è una storia di confluenze e rispecchiamenti ancora in corso.   

Caroline Patey, consigliere culturale Finer Finance Explorer