NON È UN PAESE PER FILANTROPI (MA LO SARÀ)

Gentleman | Dicembre 2021

Cambiare la cultura della donazione, ideare nuovi strumenti per la charity, puntare sui millennials. Questi gli obiettivi di Fondazione Italia Sociale, che raduna alcuen tra le maggiori aziende italiane.

Di Emanuele Elli

In Italia si dona poco e male (siamo 33° nel World Giving Index…). E soprattutto chi potrebbe donare di più lo fa, in proporzione, ancora meno degli altri. È un identikit della nazione poco lusinghiero, ma solo in parte sorprendente, quello che emerge dall’indagine sull’Esperienza filantropica dei wealthy people (ovvero con una ricchezza finanziaria tra i 500mila e i 10 milioni di euro), realizzata da Fondazione Italia Sociale (www.fondazioneitaliasociale.org). La situazione, infatti, è nota a tutti gli osservatori e gli operatori del Terzo settore e ha costituito la premessa non solo per spingere verso una riorganizzazione del settore sfociata nel nuovo Codice, ma anche per suggerire la nascita di nuovi enti che sistematizzino le donazioni, incentivandole e organizzando attorno ad esse un ecosistema di professionalità adeguate. Perché in un mondo sempre più complesso anche per donare (e per ricevere) bisogna essere preparati.

Fondazione Italia Sociale è nata su iniziativa pubblica, nel 2018, esattamente a questo scopo: favorire le iniziative private destinate a progetti sociali e integrare così la rete del welfare che non può più poggiare solo sulle finanze pubbliche. «Vogliamo aumentare la cultura della donazione in Italia», racconta Gianluca Salvatori, segretario generale della Fondazione, «e portare da 10 a 15 miliardi di euro entro il 2030 le risorse filantropiche. Tra i nostri compiti ci sono, per esempio, quello di ideare nuovi strumenti per esercitare la filantropia e orientare le risorse verso un settore particolarmente sfornito, quello dei progetti nazionali, che, a differenza delle iniziative locali, attirano solitamente meno sponsor e meno partecipazione».

Oltre ad aver dato vita a un centro studi, ad aver formulato due proposte di legge sul Terzo settore e ad aver raccolto intorno a sé l’adesione di alcune tra le più importanti imprese private del Paese, Fondazione Italia Sociale ha sviluppato due nuovi veicoli di fundraising ispirati a esperienze internazionali: una lotteria nazionale solidale e una fondazione per la gestione dei Donor Fund. «Si tratta rispettivamente della prima Lotteria Filantropica, l’unica che destina l’intero ricavato, premio compreso, a scopi benefici e della maggiore realtà di intermediazione filantropica del Paese. L’ente supporta, infatti, la creazione di fondi individuali da parte di imprese o singoli per i quali il donatore indica la destinazione ma lascia la gestione in capo a una fondazione ombrello. È un modello destinato a donatori medioalti, cioè dai 400mila euro in su, e che è apprezzato anche dalle aziende per i minori oneri e costi di gestione che comporta rispetto alla creazione di una propria fondazione di famiglia o corporate».

Il terreno da recuperare resta molto, soprattutto sul fronte dei più ricchi. Dei 10 miliardi circa di donazioni che arrivano al Terzo settore, infatti, la stragrande maggioranza è composta da piccole cifre. Anche per questo la Fondazione ha voluto analizzare più in profondità le abitudini dei wealthy people attraverso l’indagine condotta con l’istituto di ricerca finanziaria Finer Finance Explorer. Lo studio ha coinvolto 1.375 persone, 197 delle quali con asset tra 5 e 10 milioni di euro e 1.178 con cifre tra 500mila e 5 milioni. «Sono emersi diversi dati interessanti sia in assoluto, sia nel confronto con altri Paesi», spiega Nicola Ronchetti, founder e ceo del think tank che ha collaborato all’indagine. In particolare, a offrire spunti di riflessione è il paragone con la realtà della Gran Bretagna, equiparabile a quella italiana per numero di popolazione seppure con una ricchezza media superiore. In Italia più di un terzo degli intervistati dona meno di mille euro all’anno e solo il 6% dona cifre superiori ai 100mila euro (in Uk è il 17%); tra i super ricchi la donazione mediana rappresenta meno dello 0,1% del proprio patrimonio. L’85% degli intervistati dona a una sola organizzazione, mentre, all’opposto, in UK il 95% dona a più enti; solo il 14% è coinvolto in ruoli attivi di volontariato, mentre in Inghilterra è un terzo.

«Gli inglesi, insomma, vivono la charity con maggiore responsabilità», racconta Ronchetti. «Scelgono, donano, entrano nel board, trasferiscono le proprie competenze. In Italia la filantropia è vissuta più come una risposta alle necessità che vengono segnalate. Non è un caso, infatti, che tra i motivi delle difficoltà a donare non compaia la paura dell’impoverimento, ma piuttosto le troppe richieste e la poca fiducia che si nutre nei confronti delle associazioni quando non c’è una conoscenza diretta. Questo è un problema paradossale per il Terzo settore, che è molto frammentato e dunque avrebbe bisogno di una certa concentrazione, ma allo stesso tempo è ancora legato alla conoscenza personale con i donatori per ottenere sostegno finanziario».

Tra gli altri temi emersi anche quello del testamento solidale, indicato dall’81% come strumento ideale per la filantropia (il tempo dimostrerà se dicono il vero: nei prossimi 10 anni si calcola che un quinto della ricchezza degli italiani resterà senza eredi diretti) e del maggior coinvolgimento delle imprese, apparentemente più sensibili ai temi charity di quanto non lo siano gli stessi shareholder.

«Dalla ricerca risulta che, per sperare in un futuro diverso, dobbiamo puntare su due fattori», conclude Nicola Ronchetti: «l’ingaggio dei Millennials, che dimostrano una sensibilità maggiore verso cause come la cultura e l’ambiente molto più in linea con le sinergie auspicate dal Pnrr, e poi l’allargamento della rete dei consulenti per le questioni filantropiche, che non può più riguardare solo avvocati e commercialisti, ma deve contemplare, almeno, anche gli advisor finanziari e il mondo delle banche».