Reti vs banche:

vuoi vincere facile?

Le reti dei consulenti finanziari hanno raggiunto a maggio il record di patrimonio gestito: 571,42 miliardi di Euro. È un risultato eccezionale, che sorprende piacevolmente ma non stupisce chi da anni osserva il crescente e inarrestabile successo di questo modello di servizio che si è affermato grazie innanzitutto alla capacità di una figura professionale – il consulente finanziario – che ha saputo intercettare e soddisfare i bisogni di milioni di italiani disorientati di fronte a mercati volatili e a una situazione geopolitica a dir poco incerta.

Il merito va certamente anche condiviso con le mandanti, le reti dei consulenti finanziari che, guidate da manager brillanti, hanno saputo cavalcare il cambiamento in atto nella domanda meglio e prima delle banche tradizionali, grazie a strutture aziendali più giovani, snelle e reattive rispetto ai colossi bancari.

Le banche tradizionali sono le vittime di questo successo: i dati di raccolta positivi registrati dalle reti hanno come contro altare i dati di deflussi provenienti dalla maggior parte delle banche tradizionali.

Le banche tradizionali stanno vivendo un processo di trasformazione della domanda mai visto prima, la rivoluzione digitale ha drasticamente messo in crisi il loro modello, i clienti abbandonano le filiali ma – per ora – non le banche, grazie alla ben nota e atavica inerzia che caratterizza il cliente medio italiano.

Ma le barriere all’uscita di milioni di clienti dalle banche tradizionali verso le reti dei consulenti finanziari o banche caratterizzate da un modello ibrido fortemente digitalizzato stanno ormai cadendo una ad una: si tratta di una rivoluzione silenziosa e apparentemente incruenta ma che, a ben vedere, incruenta non lo è.

Migliaia di filiali chiuse, migliaia di esuberi bancari stanno rendendo la vita di chi rimane in banca sempre più complessa: meno risorse, più complessità, meno efficienza. Basta intervistare chi in banca vi è rimasto e magari in prima linea per comprendere che si tratti di una vera e propria guerra di trincea.

Il processo di trasformazione in atto nelle banche tradizionali che stanno cercando – chi meglio chi peggio – di recuperare il tempo perduto in anni di rendite di posizione non è indolore: essere a metà del guado quando le acque sono agitate non è certamente agevole.

Nelle banche si stanno sempre più affermando figure che una volta non esistevano: le loro funzioni contengono alcune parole magiche, quali “digital” (ormai divenuta una sorta di mantra), “transformation”, “engagement” e “compliance”. A queste figure spesso provenienti da settori non bancari spetta un compito ingrato e a volte impossibile da raggiungere: recuperare un gap tecnologico, organizzativo e di adeguamento normativo frutto di decenni di ritardi e di rendite di posizione, forieri di inefficienze colossali.

E come se non bastasse: la “transformation” va fatta in tempi rapidissimi perché la prossima trimestrale soffia sul collo.

Quale è l’azione più immediata che alcune banche stanno attuando per recuperare margini ormai perduti ed eliminare inefficienze decennali? Semplice, tagliare i costi, lasciando a casa migliaia di persone, investendo solo in iniziative che possano dare riscontri immediati, con un orizzonte temporale che difficilmente supera il trimestre o l’anno, senza investire adeguatamente in formazione e ascolto sistematico dei propri stakeholder (dipendenti, clienti e fornitori).

Il risultato: milioni di clienti lasciati a sé stessi, sì perché i pochi bancari che sono sopravvissuti nella filiale bancaria – ultimo baluardo della resistenza – sono un po’ come il generale Custer a Little Bighorn: devono affrontare una battaglia in pochi contro molti e più agguerriti competitor. Con una differenza sostanziale però: anche grazie al sacrificio del 7° Cavalleria nacquero gli Stati Uniti d’America, dal sacrificio dei bancari temo che non vedremo la resurrezione di molte banche.

Siamo quindi sicuri che gli oltre 1.400 miliardi di Euro fermi sui conti correnti, la cronica assenza di protezione che affligge i nostri compatrioti sia frutto solo e soltanto della loro ignoranza o non sia il combinato disposto di un’offerta assente e poco strutturata?

Ecco in questo contesto chapeau e applausi ai consulenti finanziari, ma non è che sia una partita impari? Non è che come si dice “vuoi vincere facile”? Questi interrogativi dovrebbero porre un dubbio amletico in tutti noi. Siamo certi che in questa situazione competitiva a vincere sia il cliente finale? L’economia reale del nostro paese?

È indubbio che un mercato altamente concorrenziale dove la competizione si vince sulle competenze e sulla qualità del servizio è di per sè stesso garanzia di efficienza. Viceversa un mercato dove la maggior parte delle banche parte con un handicap strutturale e organizzativo significativo, condito da una crisi reputazionale che non si vedeva dal 1939, rischia con buone probabilità di non essere massimamente competitivo e quindi in definitiva inefficiente.

Quindi delle due l’una: o le reti si affrettano a raddoppiare le masse in gestione, facendo piazza pulita delle banche inefficienti, stanando ed educando oltre undici milioni di italiani ad investire i propri risparmi per salvaguardarli dall’inflazione e a proteggersi dai rischi (siamo tra le nazioni EU meno assicurate), e assicurandosi un futuro sostenibile con un ricambio generazionale e cavalcando la rivoluzione digitale oppure arriverà un terzo incomodo, senza escludere che magari – come l’araba fenice – le banche potrebbero rinascere dalle proprie ceneri.

Ma questo non è un male: le competizioni dove non c’è gara, non piacciono a nessuno.

Nicola Ronchetti